La gazza by Scarlet 

La gazza by Scarlet

“Quarantotto, quarantanove. via!”
Schizzò fuori giusto in tempo, un secondo prima che il pannello del condotto di aerazione si richiudesse, con la precisione di un orologio svizzero e con un sinistro rumore metallico che sapeva di scampato pericolo. Si concesse lo spazio di due respiri profondi, rannicchiata per terra, con le lacrime che le pungevano gli occhi per la fitta, poi proseguì, imprecando tra sé e sé per lo scricchiolio della caviglia. Nei film, chissà perché, non succedeva mai che i protagonisti mettessero un piede in fallo, o che avessero le mestruazioni, evento che la sua pancia non tardò a ricordarle. Le lenti le mostrarono una sala molto ampia dal soffitto altissimo a volta, percorsa da sottili fasce laser, invisibili ad occhio nudo, che circondavano una colonnina sul cui capitello faceva bella mostra di sé un cuscino di velluto nero sul quale a sua volta era poggiato l’Occhio del Drago. Il gioiello era protetto da una campana di vetro dotata di un sofisticato meccanismo d’allarme.

Scrutò le gigantesche sculture raffiguranti divinità mostruose, opera di un artistucolo moderno che stava godendo di un’effimera notorietà, soprattutto grazie ai suoi agganci politici.

Una di esse aveva le sembianze di una strana bestia dotata di artigli acuminati, che si protendeva verso il prezioso oggetto come per ghermirlo. L’effetto era molto kitsch ma indubbiamente impressionante. Il servizio sul giornale del mattino riportava anche il nome dell’autore e quello dello scrittore al quale si era ispirato, un tale Lovecraft, le sembrava. L’articolista aveva sarcasticamente commentato che si era cercato di far risaltare la bellezza del diamante affiancandogli delle opere oggettivamente orrende e prive di qualsiasi valore artistico. Non era quello, pero’, il momento di dedicarsi all’arte, decise scrollando mentalmente le spalle: c’era del lavoro da fare e ora sarebbe venuta la parte interessante.

Aveva individuato immediatamente le telecamere a circuito chiuso, grazie al led rosso lampeggiante. Un colpo di fortuna insperato, quello. Normalmente le ci volevano almeno quattro minuti per disattivarle e riattivarle mandando in onda il filmato-ombra. E, invece, le aveva trovate già fuori servizio. Per una volta, non c’era motivo di lamentarsi dell’inefficienza dell’amministrazione. Sogghignò: il museo era il vanto della città, di nuovissima costruzione, con i suoi sistemi super-efficienti, a prova di ladro. Una sfida alla quale non aveva saputo resistere. Quella stessa mattina aveva gironzolato in quelle stanze con aria casuale, insieme ad altre centinaia di visitatori, registrando nella propria mente la posizione delle telecamere a circuito chiuso e, fingendo di cercare la toilette, aveva anche dato un’occhiata alla sala controllo, dove un grasso custode era impegnatissimo nell’ennesima sfida contro freecell. Il suo sorriso imbarazzato e la scatola di assorbenti che aveva in mano non avevano destato alcun sospetto.



Adesso aveva ben quindici minuti, dunque, prima che ripassasse il controllo, per cui non c’era motivo di essere agitata. Per la verità, non lo era quasi mai, ma quella piccola storta alla caviglia l’aveva fatta innervosire. O forse era la sindrome mestruale. Quest’ultimo pensiero aleggiò, irritante, per qualche frazione di secondo nel suo cervello, giusto il tempo di acuire la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.

Sgombrò la mente con uno sforzo di volontà, si assicurò che nessun ciuffo ribelle fosse uscito dal cappuccio nero che completava la sua divisa da lavoro, poi mosse il primo passo, e un altro ancora, lasciando l’insicurezza alle proprie spalle e facendosi guidare dai muscoli, come sul ritmo di una musica interiore.

Non si limitava ad evitare le linee laser che, interrotte, avrebbero fatto scattare tutti i meccanismi d’allarme, ma sembrava danzare attraverso di esse, sinuosa e leggera, con movimenti fluidi e scattanti che tradivano quella perfezione nel controllo dei movimenti che si raggiunge solo dopo anni di allenamento.

La fatica e la tensione non tardarono a far sentire i propri effetti e minuscole gocce di sudore le imperlarono il viso, man mano che procedeva verso la sua meta. Non riusciva a raggiungere quello stato di trance nel quale il corpo avrebbe preso il comando e la stanchezza sarebbe stata messa da parte, inascoltata.

“Calma, sta’ calma” si ripeté, sentendosi come una bambina a un saggio di danza.

Si bloccò lì dov’era, improvvisamente conscia della sensazione di disagio:

si sentiva osservata.

Diede un’occhiata torva al led rosso in alto, ferma in equilibrio su una sola gamba, l’altra ancora a mezz’aria, mentre la sua mente lavorava febbrilmente. Quel pulsare di luce la infastidiva, ma era consapevole del fatto che, se fosse stata scoperta, nel tempo di pochi minuti le guardie sarebbero entrate e tutte le luci si sarebbero accese illuminando la sala come un abete a Natale.

Tutto ciò non era accaduto, quindi doveva costringersi a rimanere impassibile e a terminare il suo lavoro.

Mancava ancora poco: presto l’Occhio del Drago sarebbe stato nelle sue mani!

Non vedeva l’ora di metterlo insieme agli altri suoi piccoli tesori. Il cuore le batteva all’impazzata mentre collegava il minuscolo congegno elettronico che avrebbe disattivato il meccanismo d’allarme della campana di vetro. Non era la prima volta che lo utilizzava, ma continuava a provare una sorta di religioso rispetto per quella piccola meraviglia della tecnologia che le aveva già aperto tante porte.

I suoi sensi furono allertati da uno strano movimento, si voltò di scatto:

il led. era solo quella stramaledetta lucina rossa! Annusò l’aria e le parve di sentire uno strano odore.Tutte le sue cellule le urlavano un solo messaggio: fa’ in fretta e scappa di lì!

Sollevare l’ultima barriera, afferrare con la mano guantata il brillante e ritrovarsi abbagliata dalle luci della sala, mentre l’allarme sonoro scattava festoso, fu tutt’uno.

“Cazzo!” esclamò, guardando istintivamente l’orologio. Qualcosa era andato storto, ma cosa? E la sua via di fuga non era accessibile per altri dieci minuti.

Si guardò intorno, sentendosi come un topo in trappola. Era il suo cuore che faceva quel fracasso oppure quello era un rumore di passi? Non ebbe il tempo di porsi tante domande: due braccia robuste intorno alla vita la sollevarono di peso, come fosse stata un fuscello, incuranti dei suoi tentativi di divincolarsi. Le sembrò quasi di avvertire il rumore quando col gomito colpì l’intruso al volto. Lui imprecò, affondando per reazione le dita nelle sue carni, facendole male.

“E sta’ ferma! Preferisci i poliziotti?” Le sibilò all’orecchio, quasi impercettibile nello scampanellare dell’allarme.

Un barlume di speranza. Lei smise di dibattersi e si lasciò sospingere per terra, contro la gigantesca scultura alle spalle della colonna. L’uomo vi aprì un varco e, senza troppi complimenti, le mise una mano sul sedere e la spinse all’interno di quello spazio angusto. Fece giusto in tempo a richiudere il pannello dietro di sé: in quell’istante arrivarono, pistole in pugno, quattro guardie trafelate.

Dal loro nascondiglio, i due ascoltarono l’alternarsi di imprecazioni furiose, richieste di rinforzi alla radio e chiacchiericci concitati, anche se lo spesso strato di materiale impediva loro di distinguere tutte le parole.

“Credi che ora potresti togliermi la mano dal culo?” Sussurrò lei. L’uomo mise un dito sulle labbra, nel segno universale per ottenere il silenzio. Armeggiò con una rudimentale pulsantiera incassata nella parete e finalmente si rivelò un piccolo monitor che, una volta acceso, mostrò l’esterno dell’ingegnoso nascondiglio, con le guardie indaffarate che perquisivano l’ambiente.

Qualcuno finalmente fece tacere l’allarme e nella sala calò il silenzio. La donna riconobbe l’angolazione della telecamera: doveva trattarsi di quella dal led rosso che tanto la disturbava!

“Mi stavi osservando!” sibilò, cominciando a comprendere la portata di quanto era accaduto.

Nella debole luce del monitor, le parve di vedere un sorrisetto divertito. “Ovvio, non capita spesso di vedere una Lara Croft in carne ed ossa.” La mano sul fondoschiena si mosse, come per saggiarne la consistenza. “Solo che hai sbagliato i tempi, piccola, e soprattutto hai sbagliato obiettivo.” La donna sentì la furia crescere dentro di sé, nel sentirsi paragonare a un personaggio da videogame, ma al tempo stesso non poteva rischiare di mettere in pericolo quell’insperata occasione di sfuggire alla polizia. “E perché mai, di grazia?” Tentò di girarsi per guardarlo meglio in viso, ma lo spazio era davvero ristretto e, muovendosi, gli si ritrovò seduta in grembo. L’uomo le tolse finalmente la mano dal sedere, ma solo per percorrerle il corpo, senza fretta e senza distogliere gli occhi dalla scena che si svolgeva all’esterno.

“Ma ti sembra il momento di fare il porco?” Era esterrefatta. “Sto soltanto tastando la tua bella tutina nera, ciccia.” Le sussurrò lui, canzonandola e tirandole giù il cappuccio, in modo da liberarle i capelli acconciati in uno chignon. Posò le labbra sul collo, annusò e decise che sapeva di buono, la strinse più forte, tirò fuori la lingua e la passò sulla pelle. Contrariamente alla sua volontà e alla sua razionalità, che le urlavano segnali di pericolo e di allarme, la donna ebbe il corpo scosso da un lungo tremito.

Non protestò quando quella bocca salì più su lungo il collo, arrivando all’orecchio e mordicchiandole il lobo.

“Hai sbagliato perché l’Occhio del Drago appartiene a me, Lara.” La voce era un alito caldo che trasmetteva al suo corpo dei segnali che, combinati con l’adrenalina che ancora scorreva nelle sue vene, stavano facendo prendere una piega strana alla situazione. Il cervello registrò con un istante di ritardo il riferimento al brillante che lei teneva ancora in mano. Lo strinse più forte.

“Ero già qui dentro, e sarebbe andato tutto per il verso giusto, se tu non fossi piombata giù dal condotto dell’aerazione. Tra l’altro, sei caduta come un sacco di patate, ciccia.”

La donna si sentì avvampare suo malgrado, grata che non ci fosse abbastanza luce perché l’uomo lo potesse notare.

Nel frattempo le mani di lui erano particolarmente impegnate nel tentativo di far andare giù la zip della sua tuta. Armeggiarono per qualche secondo, fino a quando non riuscirono ad entrare e scoprirono che sotto c’era solo la pelle nuda.

“Pero’ eri tanto carina mentre facevi quella specie di balletto per arrivare fino al diamante.” Proseguì lui, pizzicandole un capezzolo, mentre tentava di liberarla della tuta, centimetro dopo centimetro. Le morse una spalla, sembrava proprio che volesse assaggiarla, pensò lei, con gli occhi fissi sul monitor. Era assurdo che stessero in quella situazione. assurdo che lui ci stesse provando mentre fuori c’erano sempre più persone che cercavano le loro tracce.

“E’ stato proprio un peccato non aver avuto il tempo per guardarti rifare il percorso all’indietro,” continuò lui, tracciando delle linee di saliva sulla sua schiena. La schiena! Era sensibilissima in quel punto. Socchiuse gli occhi, sospirando involontariamente. “Ma sai, non potevo permettere che te ne andassi con il gingillino.”

“Hai fatto scattare tu l’allarme?!” Si riscosse, furiosa, e lo avrebbe colpito se lui non fosse stato lesto a bloccarla contro di sé. “Shhhh, ciccia!” Le mise entrambe le mani sui seni, stringendoli tra le dita. “Non vuoi mica che ci scoprano?”

“Se ci scopriranno non sarà certo colpa mia, ma del tuo dopobarba! Il puzzo si sente a dieci metri di distanza!” Rispose lei, piccata. Non sapeva se essere più arrabbiata perché quell’uomo aveva mandato a monte il suo piano o perché contrariamente alla sua volontà i capezzoli si erano eretti sotto il suo tocco abile.

E non erano l’unica cosa ad essersi indurita, notò, quando lui spinse in su il bacino.

“Non so a te, ma a me questa situazione di pericolo in cui ci troviamo fa un certo effetto, ciccia.”

“Piantala!” Cercò di darsi un tono, ma era in sua balia, e lo sapevano entrambi.

Qualcosa luccicò nella semioscurità, e subito sentì qualcosa di freddo pungerle il collo da dietro.

“Co. cosa fai?” Non le riuscì di impedire alla propria voce di tremare, mentre la lama scendeva sfiorandola. Per un istante, ebbe paura che si fosse stancato di giocare e che avesse deciso di farle del male per recuperare l’Occhio.

“Shhhh.”

Lacerò la stoffa, con un lento taglio longitudinale, soffermandosi qualche istante di troppo per farle sentire il contatto con l’acciaio. Quando le labbra calde dell’uomo seguirono la scia del graffio sulla pelle, lei comprese quali fossero le sue intenzioni. Il contrasto le fece rimescolare il sangue e le sfuggì un gemito, che non era di dolore, mentre la sua parte razionale si girava dall’altro lato, fingendo di non vedere cosa stesse accadendo.

Quando il coltello arrivò alla base della schiena, si sollevò, per facilitargli l’opera, le cosce divaricate e il sesso in fiamme, mentre la lama andava a incidere la stoffa.

Lo sentì armeggiare con i suoi pantaloni, poi una mano andò a frugarla tra i riccioli morbidi. La esplorò con fare da padrone, le stuzzicò il clitoride eretto, strappandole un gemito subito soffocato. Sorrise, poi andò più in fondo, sicuro di trovarla già bagnata e pronta per accoglierlo. Subito, lei sentì il suo respiro concitato bloccarsi.

“Che cazzo è questo?!” Esclamò, dando un debole strattone al cordino. La ragione della donna riaffiorò a galla, dopo un secondo di silenzioso imbarazzo:

“Anche un cavernicolo come te avrà visto la pubblicità del tampax, qualche volta!” Ghignò lei, delusa e allo stesso tempo compiaciuta di avergli guastato i piani.

“Non è buffo che tutti si stiano affannando per cercarti e tu sia qui, sotto il loro naso?”

Osservò lui in un sussurro, inaspettatamente, giocherellando con il cordino del tampone e sfiorandole contemporaneamente il clitoride. Lei non rispose, ma contrasse i muscoli vaginali, opponendo una debole resistenza alle sue manovre, concentrata sulla lingua che le stava inumidendo la schiena, regalandole brividi di piacere. La bocca di lui saliva sul collo, per morderlo e poi baciarlo, e subito soffiarci su, come per spegnere un fuoco che ormai poteva essere solo alimentato.

La donna non si limitava più ad accettare passivamente baci e carezze, ma si inarcava e si sollevava per riceverli, andandogli incontro e guidandolo, alla ricerca del piacere. La sua lingua le scivolò alla base della schiena, andando ad esplorare le due lievi fossette, poi andò oltre, e lui le dovette afferrare i fianchi, sollevandola di più, per non interrompere il suo umido percorso. Quando sentì la bocca posarsi sul buchino, bagnandolo, fremette, desiderando pazzamente di avere di più. E lui l’accontentò, facendola scivolare lentamente in basso, fino ad incontrare il sesso svettante, che ormai puntava deciso verso quel bersaglio tanto più appetibile perché non programmato. Non la spinse contro di sé, non si mosse, ma la lasciò libera di scegliere, riprendendo invece a masturbarla. La donna si teneva in equilibrio sui talloni, godendo delle carezze, e fu il suo corpo a decidere quando fu pronto, il buchino ammorbidito e inumidito dalla saliva, andando col bacino sempre più giù, impalandosi lentamente, all’inizio con difficoltà, ma poi sembrò scivolare, man mano che il piacere saliva e il desiderio di sentirlo dentro aumentava. Fu allora che lui cominciò a muoversi, sotto di lei, ormai al limite dell’eccitazione. Le artigliava i fianchi, come per entrarle sempre più in fondo, godendo nel sentirsi stretto tra quelle pareti di carne calda e accogliente che si riaprivano ansiose per lui, tutte le volte che rientrava. Lei prese a masturbarsi furiosamente, mentre il piacere le montava dentro a ondate, pompato dalle spinte dello sconosciuto, per scuoterla, infine, con lunghi brividi. L’uomo cercò di trattenersi, ma gli ansiti di lei risuonavano dentro, giungendo come una sferzata al sesso. Un’ultima spinta e rimase conficcato nel suo corpo, riempiendola di sé, mentre soffocava un gemito con la bocca aperta premuta contro la schiena di lei. Lei aprì gli occhi, scossa. “Cazzo!” Fu il suo brillante commento.

Il monitor stava inquadrando due occhi scuri, che sembravano fissare proprio loro due, indagatori e sospettosi, e un naso reso enorme dalla vicinanza alla telecamera.

La donna si distaccò dall’abbraccio, con tutta la delicatezza del caso, tornando improvvisamente alla realtà, mentre dal suo corpo defluiva l’eccitazione e la razionalità tornava a far capolino, timidamente. “Ti offrirei volentieri una sigaretta, Lara,” sussurrò lui, “ma ho qui solo una merendina alla carota e mezza lattina di succo d’arancia.” Continuava ad accarezzarle un fianco, come fosse stata la cosa più naturale del mondo, e lei con sorpresa scoprì di non avvertire quel pudore che, solitamente, l’assaliva tutte le volte che aveva l’impressione di andare “oltre”.

“Magari mangerò la merendina,” rispose, con un sorriso esitante. “Ho idea che rimarremo qui dentro molto a lungo.”



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